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A  B  O  U  T

Paolino crea fantasmi di architetture immaginarie, d'invisibili città visibilissime, grazie ad un complesso lavoro di elaborazione analogica e digitale, che fa sì che delle semplici fotografie documentarie galleggino irrequietamente  tra fotografia e pittura, in un gemellamento acido ed interrogativo. Quasi in un'esplosione tecnica e visiva del tessuto originario stesso e lacerato dell'immagine. La realtà stessa viene come assorbita nel nucleo (atomico?) d'un'architettura storica, da antologia e per lo più riconoscibile, che non rinuncia, sia pur sfaldandosi, alla propria inquietante, nebulosa monumentalità ferita. Sia che si tratti di paesaggi desolati d'un temuto futuro, prossimo e desertificato, o di celebri icone ravvisabili, da pompati archistar (in un omaggio straniato e deforme delle caste liturgie documentali e germaniche in bianco e nero di Bernd e Hilla Becher) la scena rannuvolata evoca costantemente un'atmosfera sospesa ed allarmante. Da rampa di lancio. Si tratta ogni volta d'immagini metabolizzate e stracciate, brandelli d'un universo in decomposizione, lacerti di sogni in disfacimento, ove spesso viene come inscenato au ralenti un dialogo conflittuale, un combattimento estremo e disperato tra natura & cultura. Sono immagini che, pur riciclando, metabolizzando e cancellando rimandi ad un pulsante universo visivo, che è quello reale del nostro patrimonio urbanistico, si situano comunque in un limbo inafferrabile, al di fuori del flusso quotidiano della spazzatura d'informazioni ottiche, cui siamo perpetuamente sottoposti. Come oscurando e riaccendendo il nostro assuefatto sguardo 'televisivo'. Anche se poi la loro natura monumentale le relega tutte in una dimensione atemporale d'ineludibile ed inagguantabile contemporaneità delusa.

 

M. V.

Paolino’ s ghosts belong to imaginary architecture, to the invisibility of glaringly visible cities. His work bases on the complexity of analogic and digital processing, which makes plainly documentary photographs float restlessly between photography and painting, whose twinning turns into an acid question. Almost as if the very core of the torn image technically bursts into a visual explosion. Reality itself is absorbed into the - atomic? – core of the most recognizable anthology of historical architecture, whose shuttered monumentality breaks down and bleeds, but does not give up its own disturbing nature. No matter whether the clouded scene is part of a desolate landscape in a feared future, near and desertified, or the recognizable icon of some famous archistar (an alienated, disfigured tribute to the chaste liturgies of Germanic, black-and-white documentaries by Bernd and Hilla Becher) – it evokes the constantly suspended, alarming mood of a launching pad. The scene is always about metabolized, torn images. It is about pieces of a decaying world. It is about fragments of disintegrating dreams. A slow-motion conflict is often staged as an extremely desperate battle between nature & culture. Such images recycle, digest, and cancel any reference to the pulsing visual universe of our real, urban heritage. Nevertheless, they still remain part of an elusive limb that lays beyond the daily junk of optical information that we are bombarded with. They interrupt our addiction and reset our TV-influenced perspective. But in the end, the monumental nature of these scenes confines them in the timeless dimension that too often coincides with the disillusion of an inescapable and still elusive contemporaneity.

 

M. V.

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